Incontro, accoglienza, prossimità. Omelia per la XX Giornata Mondiale della Vita Consacrata, 2 febbraio 2016

02-02-2016
1. Sappiamo, sorelle e fratelli carissimi, che un nome dato in Oriente sin dall’antichità a questa festa è «incontro» (upapante, in greco e occursus, in latino). È una parola, questa, che porta la nostra attenzione all’incontro di Gesù, il «bambino» che Maria e Giuseppe portano al Tempio, e Simeone, l’uomo «giusto e pio che aspettava la consolazione d’Israele», come lo descrive il vangelo. La parola «incontro» è, del resto, ricorrente in questa liturgia, che ha avuto inizio con l’invito: « andiamo incontro al Cristo nella casa di Dio». Risentiremo fra poco nel Prefazio: «E noi esultanti andiamo incontro al Salvatore».
«Incontro» è una parola bella di per sé, connotata di affetto, pace e simpatia; è un programma di vita addirittura se Papa Francesco ne parla in termini di «cultura», ossia come qualcosa che dobbiamo coltivare e promuovere perché ci fa crescere. Figuriamoci poi quando si tratta dell’incontro con Dio, con Cristo. Soffermiamoci, allora, un po’ su questa parola al fine di scrutarla nell’interno e sviscerarne i significati.
Giorni or sono abbiamo celebrato la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali: nei Messaggi che per questa circostanza il Papa ha consegnato dal 2014 a questo 2016, la parola «incontro» è sempre presente. Come può la comunicazione essere a servizio di un’autentica cultura dell’incontro? domandava nel messaggio del 2014. Qui egli traduceva la comunicazione in termini di prossimità. Si tratta – scriveva – non soltanto «di riconoscere l’altro come un mio simile, ma della mia capacità di farmi simile all’altro». Comunicare è incontrare, avvicinarsi e avvicinare. In tale contesto il Papa guardava alla parabola del buon Samaritano, che una parabola del comunicatore perché – egli diceva – il Samaritano è uno che si fa prossimo.
Effettivamente l’evangelista Luca identifica il buon samaritano con questi termini: «Chi ha avuto compassione» (Lc 10,37). La traduzione latina della Vulgata esprime con maggiore profondità: Qui fecit misericordiam. Ed è giusto così, perché la misericordia richiede prossimità e la prossimità è segno di misericordia. Un testo medievale spiega che nella misericordia non basta stare vicini. Occorre, piuttosto, farsi prossimi perché tra la vicinanza e la prossimità c’è una differenza simile a quella che esiste fra il pensiero e l’azione. È davvero «prossimo» non chi pensa, oppure propone, ma chi «fa»: prope cogitando, proprior volendo, proximus faciendo (Helvicus Theutonicus, De dilectione Dei et proximi III 4). È davvero «prossimo» solo chi fa la misericordia.
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