Moralisti dell’inclusione. Omelia al XXVI Congresso Nazionale ATISM, Ariccia, Casa Divin Maestro – 23 agosto 2016

23-08-2016
1. Desidero anzitutto ringraziarvi per l’invito a celebrare con voi questa Eucaristia. Vi saluto con sincera cordialità, a cominciare dal vostro Presidente Basilio Petrà e poi, allargando lo sguardo, voi tutti, specialmente gli amici che riconosco in questa nostra assemblea liturgica.
Il XXVI Congresso Nazionale coincide col 50° di fondazione della vostra Associazione. Vivete, dunque, un momento «giubilare» in tempo di giubileo: il Giubileo Straordinario della Misericordia. Il titolo del vostro Convegno incoraggia a guardare al futuro ed ecco che, nell’indire questo speciale «anno santo», anche il Papa guarda in avanti e ci dice: «come desidero che gli anni a venire siano intrisi di misericordia per andare incontro ad ogni persona portando la bontà e la tenerezza di Dio!» (Misericordiae Vultus, n. 5). Penso che queste due parole: bontà e tenerezza, siano importanti per il vostro lavoro.
In Evangelii gaudium Francesco ricorre all’espressione «rivoluzione della tenerezza». Non è una categoria politica, ma cristologica perché ha la sua fonte nell’incarnazione del Figlio di Dio (cf. n. 88). Per questo il Papa ci presenta come modello la Madre del Signore: «ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti» (n. 288).
 
2. Permettete, però, che porti attenzione ad un’altra parola-chiave del vostro Convegno: «eredità». Voi la riferite Vaticano II. Molti di noi possiamo chiamarci in qualche modo testimoni di second’ordine di quel Concilio. Vedo certo presenti tanti che sono giovani e che in quegli anni ’60 non erano ancora nati. Diversi di noi, però, in quel periodo eravamo giovani seminaristi, eravamo agli inizi dei nostri studi di teologia… Pongo allora (e la rivolgo prima di ogni altro a me stesso) questa domanda: cosa può vuol dire ereditare il Concilio?
Diversi tra noi hanno l’età per ricordare alcune alternative: il concilio dei documenti, o lo spirito del concilio? Il concilio come evento, o il concilio come decisioni? il Concilio dei Padri conciliari, o il Concilio dei media (lo ripeté Benedetto XVI dialogando col clero romano nei giorni successivi all’annuncio della sua rinuncia). Sono interrogativi seri, ancora cinquant’anni dopo il Concilio. Io, però, mi domando: cosa vuol dire essere «eredi» del Vaticano II?
Mi viene alla mente questa frase di Goethe: «Quello che hai ereditato dai tuoi padri, riconquistalo, se davvero vuoi possederlo» (Faust, p. I, sc. I [Nacth], 682 – 683). Mi vien da pensare: «ereditare» è un verbo che non si deve coniugare al passivo, ma all’attivo. Non ci si può, infatti, limitare a ricevere un bene, ma occorre farlo proprio con un gesto di apertura consapevole, libera, disponibile e responsabile. Solo nelle scelte consapevoli e aperte al futuro le eredità rivivono. Anche per questo, si trasformano e fruttificano. «Ereditare» vuol dire fare scelte gravide di futuro.
 

””