Omelia per la conclusione della Visita Pastorale nel Vicariato di Marino e l’inizio del processo informativo diocesano sulla fama di santità del Servo di Dio Mons. Guglielmo Grassi, 19 novembre 2011

19-11-2011

1. La profezia di Ezechiele fa risaltare davanti a noi, questa sera, la figura del Pastore. Essa è contrassegnata dai tratti della premura, dell'attenzione diretta, della cura. Il Salmo 22, con cui abbiamo pregato, n'è stato come un'eco: «Il Signore mi conduce, mi fa riposare». Siamo di fronte a una delle più affettuose immagini di Dio presenti nella Bibbia e, come sappiamo, con essa Gesù si è immedesimato. Pensiamo a capitolo 10 di Giovanni dove leggiamo che il Pastore «buono» conosce e guida le sue pecore, le nutre e dialoga con loro; soprattutto, dona loro la vita.

In qualche modo l'evangelista vuol dirci pure che col discorso del Buon Pastore s'inaugura la Chiesa. Dopo di Gesù, infatti, altri pastori saranno incaricati di vegliare sulle Chiese e, avendo Lui come modello, avranno il compito di nutrire e custodire le pecore, di cercare quella smarrita, di difenderle dai lupi rapaci. Più di tutto dovranno avere il medesimo cuore. Pastori secondo il cuore di Cristo.

In quest'orizzonte dovranno considerarsi tutti i risvolti che la stessa parola «pastorale» ha avuto nella vita della Chiesa. È vero che, in tempi recenti, per indicare l'agire cristiano nella storia si è cercato di fare ricorso a figure più attuali, meno logore dall'uso frequente e più adeguate, per così dire, a un contesto culturale secolarizzato qual è il nostro. Evocare, in effetti, la figura di un pastore nell'epoca delle macchine potrebbe apparire alquanto démodé, se non addirittura rischioso. Ecco allora che qualcuno preferisce piuttosto che di «pastorale» parlare di «teologia pratica», o di «teologia applicata», intendendo con ciò un riferimento alla prassi credente e religiosa di un'intera comunità, ovvero alle forme nelle quali la Chiesa attua se stessa nel corso della storia.

Le ragioni non mancano di plausibilità, almeno per evitare l'equivoco che la «pastorale» consista in un codice di comportamenti riservati (come in effetti intendeva l'ecclesiologia post-tridentina), o facenti capo in ogni caso, al «pastore d'anime», cioè al sacerdote. Se così si pensasse ancora oggi, si sarebbe di sicuro di de-clericalizzare la pastorale! Ne ho parlato ai Consigli parrocchiali della Vicaria nell'incontro del 28 settembre scorso. È improrogabile, dicevo, assumere i compiti pastorali non secondo una riduttiva logica clericale, ma nella loro forma piena, comprensiva non soltanto dei gesti ad intra di una comunità cristiana (annuncio e catechesi, liturgia, vita di comunione, carità), ma anche dei comportamenti ad extra (alleanze educative, impegno sociale e politico).

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