Sulle spalle del Buon Pastore

Omelia nel trigesimo della morte di monsignor Dante Bernini, vescovo emerito di Albano
29-10-2019
  1. «Annunciamo la tua morte, Signore; proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta». La formula di fede, che abitualmente ripetiamo nel cuore della Messa, riecheggia le parole di san Paolo: «Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1Cor 11,26). Così, della celebrazione eucaristica esse esprimono la dimensione dell’attesa, il desiderio dell’incontro definitivo con Cristo; manifestano quella tensione che faceva esclamare san Tommaso: «Oh Gesù, che ora contemplo nei segni sacramentali, ti prego: adempi il mio ardente desiderio di vedere faccia a faccia il tuo volto e così gioire della tua gloria» (Adoro te devote, str. 7).

È merito della riforma liturgica voluta dal Vaticano II il vedere oggi esplicitata in questo Rito la sua dimensione escatologica. L’Eucaristia è tensione verso la meta ultima del nostro cammino; non soltanto del nostro, ma pure dell’intera creazione, come abbiamo ascoltato dalla Lettera ai Romani (cf. 8,18-25). Questa tensione, però, il più delle volte, nella creazione e in noi, è spasimo, motivo di sofferenza. L’Apostolo parla di «doglie di un parto», ossia gemiti per cose nuove che stanno nascendo. Chi assiste questa nuova nascita è lo Spirito. Egli opera interiormente perché si sveli finalmente la grazia della nostra adozione a figli.
In questa prospettiva di speranza teologale noi questa sera ricordiamo il carissimo vescovo Dante. Nella comunione dei santi lo sappiamo e lo sentiamo vicino; accanto a noi, che con gli angeli e con i santi cantiamo al Signore, Dio dell’universo. Nella sua semplicità e umiltà mons. Bernini è stato come il granello di senape che, gettato nel giardino della nostra Chiesa di Albano, è diventato un grande albero, sui cui rami in tanti abbiamo trovato riparo e riposo (cf. Lc 13,19). Ora egli è simile ad albero trapiantato lungo corsi di acque. E mentre noi – lo scriveva G. Ungaretti – «si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie», le sue, invece, non appassiscono mai (cf. Sal 1,3), perché è nella vita eterna.