Ubi gratia, Christus adest. Omelia per l’ordinazione al presbiterato di Kennet Meneses e Valerio Messina, 7 dicembre 2015

07-12-2015

1. Ho scelto di celebrare in questa data l’ordinazione di Kenneth e Valerio per dare, se possibile, al loro sacerdozio una fragranza tutta particolare, che si diffonda nel corpo sacerdotale della nostra Diocesi e nell’intera Chiesa di Albano. Vorrei confezionarlo, questo profumo, ricorrendo a tre parole.

La prima è «amore», che attingo dalla liturgia della Parola di questa festa dell’Immacolata. Dalla lettera agli Efesini abbiamo ascoltato che Dio ha un «disegno di amore» perché ci vuole di fronte a lui «santi e immacolati nella carità» (1,4-5). È bello osservare, qui, che le parole amore e carità s’intrecciano sino a fondersi con l’essere «santi e immacolati», perché l’irreprensibilità di cui Maria è icona totale. Non è il glaciale candore della neve, ma è frutto dell’amore ed è sorgente di carità. Dove non c’è «amore», non c’è purezza; dove, invece, c’è il fuoco dell’amore c’è anche perdono dei peccati. Riconosciamo la parola di Gesù, che dice: «molto le è stato perdonato, perché molto ha amato» (Lc 7,47).

Per questo il Padre vuole che siamo sempre «di fronte» a lui, cioè in un «a tu per tu» che è fiducia assoluta nel suo perdono. Perché egli ci ama ed è il suo un amore che ci vuole figli, che ci rende figli. Noi siamo figli del suo «desiderio»! Ciò che nei nostri stili sarebbe un disordine, in lui è grazia.

A questa vocazione eterna all’amore-che-perdona Maria ha risposto con il suo «eccomi» pronto e incondizionato. Tale è pure la vocazione eterna per ciascuno di noi, diventata grazia nel Battesimo. Questa è la vocazione eterna anche al ministero sacerdotale, cui Kenneth e Valerio, come l’Immacolata Madre di Dio, oggi rispondono: «avvenga per me secondo la tua parola».

2. La seconda parola è «misericordia». Certo, come leggiamo nel Messaggio del Papa per la prossima Giornata Mondiale delle Vocazioni resa nota proprio oggi, tanto la vocazione cristiana in sé quanto le vocazioni particolari, sono doni della divina misericordia. Desumo, però, questa parola dalla coincidenza di questa festa mariana col cinquantesimo anniversario della chiusura del Vaticano II. Cosa è stato il Concilio? Una risposta a questa domanda l’ha data cinquant’anni or sono il beato Paolo VI quando, dopo avere rievocato l’antica storia del Samaritano e averla indicata come «il paradigma della spiritualità del Concilio», aggiunse che esso, sotto la luce della Parola di Dio, si è messo a studiare l’uomo; «ha considerato ancora l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, ed il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità. Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben più a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul

mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette» (Allocuzione nell’ultima sessione pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II, 7 dicembre 1965).
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