Unti per ungere

Omelia nella Messa Crismale 2017
12-04-2017

  1. Unxit ut ungeret: san Bernardo commentava così il passo del profeta Isaia, che Gesù legge nella sinagoga di Nazareth: «Il Padre unse Gesù perché a sua volta ungesse ed è così che egli venne «a ungere le nostre piaghe e lenire i nostri dolori; perciò venne unto, venne mansueto, mite e ricco di misericordia» (In Cant. Cantic. XVI,13).

Oggi, celebrando questa Messa che per più ragioni è singolare fra tutte, contempliamo insieme il mistero di questa unzione. È un mistero che ci coinvolge tutti nella grazia del Battesimo. Nell’unzione c’è la radice di ogni nostra fioritura per frutti di vita eterna. L’unzione è il terreno che feconda tutte le nostre diverse vocazioni.

Da questa «terra santa» possiamo, diremmo con sant’Ambrogio, vedere «le gemme della verginità metter fiori e altrove la ricca mietitura delle nozze benedette dalla Chiesa riempire i grandi granai del mondo di messe abbondante» (De virginitate VI, 34). Questa Liturgia perciò è festa della Chiesa, la festa di tutti noi che resi conformi a Cristo abbiamo come lui ricevuto l’unzione. Per cosa? Per ungere a nostra volta. Unxit ut ungeret.

  1. Nel mondo antico e pure in quello biblico la simbolica dell’unzione era molto ricca: serviva agli atleti e ai lottatori per rendere più agili i muscoli e anche per sfuggire più facilmente alla presa; era utile ai feriti perché curava le contusioni e le piaghe; era segno di bellezza perché rendeva brillante luminoso il corpo. Il CCC ci spiega che questi significati si ritrovano tutti nella vita sacramentale (cfr nn. 1293-1294).

Oggi, però, quali di tutti questi significati possiamo privilegiare? I testi biblici oggi proclamati ne sottolineano alcuni. Fra questi: «fasciare le piaghe dei cuori spezzati». Riflettiamo un attimo. Quello che subito a noi viene alla mente è forse il gesto del samaritano che si fece vicino all’uomo lasciato mezzo morto sulla strada e «gli fasciò le ferite» Lc 10, 34). Già nel Salmo 147, però, Dio è cantato come colui che risana i cuori affranti e ne fascia le ferite (v. 3). Le ferite del cuore!

Ce sono, infatti, di esteriori, ma pure di interiori; ferite meno visibili e forse più dolorose, per le quali ogni terapia fallisce e che ti portano con sé verso il vuoto. E ci sono pure le ferite collettive, che segnano un’epoca, o una generazione. Quanta nostra storia, antica e contemporanea, è segnata dal dramma della guerra! Sentendo le cronache di questi giorni, mi tornano alla mente queste parole di R. M. Rilke: «Le ferite richiedono tempo e non guariscono piantandogli dentro delle bandiere» (Lettera ad A. Mewes del 12 sett. 1919). Non basta, infatti, vincere una guerra per chiudere una storia di dolore!

Sentiamo, perciò, il bisogno di ripetere una preghiera di questi giorni liturgici: «Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio» (Colletta del Lunedì della Settimana Santa).

  1. Sì, il Signore trae fuori dall’abisso. Nella tradizione ebraica c’è questo midrash sul Salmo 34: «Se un uomo usa vasi rotti è una disgrazia, ma per Dio le cose vanno diversamente: tutti i suoi servi, infatti, sono vasi rotti, ma “vicino è il Signore a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti” (Sal 34,19» (Pesiqta de-Rab Kahana, 158B).

Non possiamo illuderci di essere infrangibili. Siamo nelle mani di Dio come dei vasi di terracotta: «Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele», dice il Signore (Ger 18, 6). Non siamo il vaso di alabastro che a Betania, nella casa di Simone il lebbroso, una donna misteriosa ruppe per versare sul capo di Gesù il profumo di nardo (cfr Mt 26, 7; Mc 14, 3); siamo, piuttosto, quel vaso di creta, di cui scrive san Paolo (cfr 2Cor 4,7). Eppure proprio in questo vaso Dio ha depositato il suo amore. Dobbiamo credere che Dio sa cosa fare dei nostri cocci.