11-07-2015
1. Sono ben lieto di celebrare oggi insieme con voi la festa di san Benedetto, non soltanto titolare della comunità parrocchiale, ma anche protettore della città di Pomezia. Proclamandolo, nellottobre 1964, principale patrono dellintera Europa, Paolo VI lo additò come araldo della religione di Cristo e fondatore della vita monastica e lo identificò pure come messaggero di pace, realizzatore di unione e maestro di civiltà (cfr lettera apostolica Pacis nuntius). Abbiamoli sempre a cuore i valori, che queste parole evocano perché essi reciprocamente si sostengono e insieme si realizzano: pace, unione e civiltà.
Lanno dopo, il 29 agosto 1965 lo stesso Paolo VI fece qui una visita pastorale e celebrò sul sagrato di questa chiesa la Santa Messa. Le cronache raccontano che quando vi giunse alle ore 8,30 il Papa fu salutato da un agricoltore, il sig. Saturnino Fiumi e da un operaio, il sig. Vittorio Manzini. Quella scelta fu simbolica. Pomezia, infatti, era nata quale borgo agricolo, ma alla fine degli anni cinquanta iniziò il suo trapasso da uneconomia essenzialmente rurale a unaltra nettamente industriale e ciò in un tempo rapidissimo. Le parole del Papa furono un riflesso di quella situazione. Egli vedeva in Pomezia «lespressione caratteristica della società moderna»: una società in «crisi», diceva, ma non nel senso negativo che oggi connota questa parola, bensì nel significato letterale di un mutamento che, però, richiede delle scelte. «Siete una popolazione sono sue parole che è nel pieno del suo trasformarsi»; il ritmo che intercorre tra lagricoltura e lindustria si accelera verso questultima, aggiunse e concluse sinteticamente: «Voi passate dallaratro alle macchine».
Laratro è unimmagine cara a Paolo VI, che la usò pure due volte nella lettera Pacis nuntius. La prima volta fu per ricordare che san Benedetto e i suoi figli «portarono con la croce, con il libro e con laratro il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dallIrlanda alle pianure della Polonia»; la seconda volta lo fece in un senso che potrebbe anche applicarsi alla storia di questa terra pontina: «Fu con laratro, infine, cioè con la coltivazione dei campi e con altre iniziative analoghe, che riuscì a trasformare terre deserte e inselvatichite in campi fertilissimi e in graziosi giardini; e unendo la preghiera al lavoro materiale, secondo il suo famoso motto ora et labora, nobilitò ed elevò la fatica umana».
Quelli in cui giunse qui Paolo VI furono chiamati gli anni del «miracolo economico» perché ebbero come effetto profondi mutamenti nei costumi e nelle abitudini dei cittadini. Per questo il Papa non mancò di avvertire paternamente che non bastava edificare la città economica, la città industriale e aggiunse: «bisogna edificare la città dei cuori»! Esortava, dunque: «Fondate questa vera città non sullindifferenza, non sullegoismo». In quella Domenica la pagina del Vangelo narrava la storia del Buon Samaritano, che si accorge dellaltro emarginato e si mette al suo servizio: così, terminava il Papa, occorre «organizzare la società sullamore cristiano».
Lanno dopo, il 29 agosto 1965 lo stesso Paolo VI fece qui una visita pastorale e celebrò sul sagrato di questa chiesa la Santa Messa. Le cronache raccontano che quando vi giunse alle ore 8,30 il Papa fu salutato da un agricoltore, il sig. Saturnino Fiumi e da un operaio, il sig. Vittorio Manzini. Quella scelta fu simbolica. Pomezia, infatti, era nata quale borgo agricolo, ma alla fine degli anni cinquanta iniziò il suo trapasso da uneconomia essenzialmente rurale a unaltra nettamente industriale e ciò in un tempo rapidissimo. Le parole del Papa furono un riflesso di quella situazione. Egli vedeva in Pomezia «lespressione caratteristica della società moderna»: una società in «crisi», diceva, ma non nel senso negativo che oggi connota questa parola, bensì nel significato letterale di un mutamento che, però, richiede delle scelte. «Siete una popolazione sono sue parole che è nel pieno del suo trasformarsi»; il ritmo che intercorre tra lagricoltura e lindustria si accelera verso questultima, aggiunse e concluse sinteticamente: «Voi passate dallaratro alle macchine».
Laratro è unimmagine cara a Paolo VI, che la usò pure due volte nella lettera Pacis nuntius. La prima volta fu per ricordare che san Benedetto e i suoi figli «portarono con la croce, con il libro e con laratro il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dallIrlanda alle pianure della Polonia»; la seconda volta lo fece in un senso che potrebbe anche applicarsi alla storia di questa terra pontina: «Fu con laratro, infine, cioè con la coltivazione dei campi e con altre iniziative analoghe, che riuscì a trasformare terre deserte e inselvatichite in campi fertilissimi e in graziosi giardini; e unendo la preghiera al lavoro materiale, secondo il suo famoso motto ora et labora, nobilitò ed elevò la fatica umana».
Quelli in cui giunse qui Paolo VI furono chiamati gli anni del «miracolo economico» perché ebbero come effetto profondi mutamenti nei costumi e nelle abitudini dei cittadini. Per questo il Papa non mancò di avvertire paternamente che non bastava edificare la città economica, la città industriale e aggiunse: «bisogna edificare la città dei cuori»! Esortava, dunque: «Fondate questa vera città non sullindifferenza, non sullegoismo». In quella Domenica la pagina del Vangelo narrava la storia del Buon Samaritano, che si accorge dellaltro emarginato e si mette al suo servizio: così, terminava il Papa, occorre «organizzare la società sullamore cristiano».
””