11 maggio – sesta settimana di pasqua
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «In verità, in verità io vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena. Queste cose ve le ho dette in modo velato, ma viene l’ora in cui non vi parlerò più in modo velato e apertamente vi parlerò del Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome e non vi dico che pregherò il Padre per voi: il Padre stesso infatti vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo e vado al Padre» (Gv 16, 23b-28).
Gesù insiste nel far chiedere al Padre nel suo nome. Egli torna spesso su questo tema, per cui occorre certamente dargli importanza. La Chiesa l’ha sempre fatto, non c’è, infatti, preghiera liturgica che non segua questo suggerimento: rivolgere la preghiera al Padre nel nome di Gesù. Questo significa pregare con la forza di Gesù, per comando di Gesù, nella persona di Gesù, inseriti in lui, rivestiti di lui, per la mediazione di Gesù. Si comprende bene la differenza tra un generico “chiedere” e un “chiedere nel nome di Gesù”. Pregare il Padre uniti, incorporati a Cristo, esige anzitutto profondità di rapporto con lui e ciò fa già escludere ogni leggerezza e futilità della nostra richiesta. Pregare nel nome di Gesù vuol dire avere la sua amicizia e quindi chiedere quello che lui chiederebbe, non altro, e chiedere come lui lo chiederebbe: Padre, ti prego con la bocca di Cristo, col cuore di Cristo, col pensiero di Cristo. «Finora non avete chiesto nulla nel mio nome»: è proprio questa la novità che ci ha portato Gesù, è questo ciò che fa cristiana la preghiera (don Paolo Ciccotti, Sulla tua Parola, Il messalino. Editrice Shalom, Maggio 2024).
p style=“text-align: right;”A cura di don Gian Franco Poli